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Collaboro dal 1993 con la rivista "Segnocinema". Amo l'appennino pistoiese, l'Aglianico del Vulture, i miei amici. Tengo per il Toro, e sono un lettore pressoché onnivoro. Ho scritto due romanzi, 'Ho una storia per te' e 'L'odore della polvere da sparo', entrambi pubblicati da Edizioni Spartaco.

venerdì 14 aprile 2023

La sera di un sabato al Café Gijón



Immagine dal web
Da qualche parte bisogna pur cominciare per cercare di raccontare l’abbraccio che è capace di dare il Café Gijón. E non è per niente cosa semplice.  dove si comincia a raccontare il mondo? E il mondo visto con l’anima di uno scrittore.

Dall’atmosfera che circola tra quei tavoli e solo tra quelli? Oppure seguendo la traccia di una fama quasi leggendaria che spinge un giovane provinciale a varcare quell’ingresso col progetto di conquistare Madrid (e forse il mondo) con la sua prosa elegante e col dono del racconto che per la sua anima spagnola è destino? Già, perché se la sintassi è una facoltà dell’anima - come ricorda in esergo Paul Valery - Umbral ne ha da vendere. Di anima. E di sintassi che affabula.

Uno spirito mediterraneo comincerebbe dai mille volti che sono storie di mille vite che in quel Caffè cercano di ricostruire una propria leggibile mappa su qualche passione o illusione. Forse. È difficile decidere.


Allora si fa una cosa. Ci si lascia prendere sottobraccio da Francisco Umbral e si entra. Per la prima volta si entra al Café Gijón. E magari è proprio un sabato sera.

E dopo aver gettato uno sguardo intorno e aver familiarizzato col fumo, con le sagome delle persone riunite in tertulias , con quell’idea guascona che nel Gijón s’invola senza concedere replica ad alcuno (qui ci si trova nel centro delle lettere di Madrid Madrid è il centro della Spagna la Spagna è il centro di tutto) si prende una decisione. 

Immagine dal web

La letteratura. La letteratura su ogni cosa. Poche righe e si diventa amici di Miguel Mihura. Se non altro perché, anche senza aver letto niente di suo, si sente una irresistibile forza di attrazione nella sua economia di vita che, abbiamo capito, consisteva nel ridurre tutto al minimo. Capirete: leggeva solamente un genere, quello poliziesco (e non può mancare Simenon); e la sua semplicità ascetica è fatta per metà di timidezza e per metà di pigrizia.

Se poi ci si va a sedere un po’ più in là magari si fa in tempo a scambiare quattro chiacchiere con Ramón de Garciasol, ridondante e barocco, ma con sulle labbra continuamente Miguel de Unamuno e Antonio Machado e Manuel Azaña e Gerardo Diego con il mare di Santander che gli attraversa gli occhi. E lui che commette l’errore di sbattere le palpebre e quel mare gli vola via. E tutti i pomeriggi, sempre, con lui c’erano al Café il grande scomparso e il grande assente: Federico García Lorca e Rafael Alberti. E poi quell’altro, di cui adesso mi sfugge il nome, che crede in ogni cosa e ogni cosa lo inganna.


Perché il Gijón è davvero un porto di mare.
 E ognuno si porta appresso i propri destini. Che siano leggere Schopenhauer o Nietzsche o cercare il romanzo della vita. È così, al Gijón si naviga. E in questo navigare si incontrano poeti, scrittori, artisti, pittori trasversali oppure pietre miliari. Ma non i grandi mostri. Perché quelli bisogna andare a cercarli nelle proprie tane. Ramón Menéndez Pidal, per esempio. Poi Dámaso Alonso. O Vicente Alexaindre.

Ma poi si ritorna sempre al Gijón dove si ritrovano i vecchi repubblicani e i contumaci della resistenza. E là fuori c’è sempre il franchismo che aveva raggiunto il punto in cui il mondo lo tollerava per noia e ci si aspettava che cadesse da solo. E che non aveva solo messo in fuga o ammazzato gli scrittori, ma aveva anche regolamentato la cultura, forse senza proporselo esplicitamente, e ormai era impossibile far correre l’immaginazione a briglia sciolta. Proprio questo scrive Francisco.


Allora si capisce bene il valore assoluto del Café. Il suo essere un universo forse separato ma nel quale tutto trova spazio. Perché qui dentro c’è voglia d’arte e c’è voglia di vita. E c’è la passione di un momento o l’amore di una vita. Al Café Gijón ci sono le donne del Café Gijón. E come si fa a raccontarle? E di chi ci si innamora? Di Nazareth dal profilo misterioso, perfetto e delicato? O di María Jesus, l’efebica che beve vino e fuma tabacco scuro, dagli occhi neri e dalla bocca grande, infantile e spiritosa?

Forse di Lola, molto malata di cuore. Lei che qualsiasi cosa la emoziona e qualsiasi cosa la mette in pericolo. Lola a cui, ci racconta Francisco, di tanto in tanto per qualche decimo di secondo si ferma il cuore. E che vive queste morti ridotte, istantanee, in cui chissà dove se ne andava, ma poi tornava, magari senza che il suo interlocutore si fosse accorto di nulla. E questi ultimi due periodi sono l’anima e la sintassi di Francisco Umbral.

E tanto, ma tanto c’è da scoprire di Madrid centro della Spagna e della Spagna centro di tutto. E del Café Gijón dove, insieme a Francisco Umbral, siamo entrati per la prima volta una sera. Forse era un sabato. Ma che importa. Se siamo ancora seduti qui a parlare di libri e di quadri e di poeti e di scrittori e di donne e di amori.

(Francisco Umbral, La notte che arrivai al Café Gijón, traduzione di Giuliana Calabrese, Edizioni Settecolori)




giovedì 20 giugno 2019

Vi invito a visitare l'altro mio blog. Grazie a tutti e a ognuno






domenica 10 settembre 2017

Sera di Tramutola

In un post di cinque anni fa scrivevo della particolare estraneità che avevo - e che ancora ho  - con Ernest Hemingway. Questo nonostante il fatto che la generazione di lettori precedente alla mia debba a lui molto della propria formazione e del proprio amore per la letteratura. Americana, ma non solo.

In tutto questo tempo che, sia detto con il dovuto rispetto per la retorica d'occasione, scivola via lento io mi sono abituato alla pazienza con la quale lo spirito di Ernest aleggia nelle mie giornate di lettore attratto da altro.

E da quando ho ascoltato Corrente del golfo, la bella canzone di Luciano Ceri (https://youtu.be/SNGIcXSCVQw), mi sono convinto ancora di più che Hemingway mi aspetta con la calma di chi sa cosa dire e come dirlo. Per questo aleggia. Saggio. Sornione. Tanto dalla sua ha l'eternità. Dunque un giorno scoprirò quello che le sue pagine mi stanno riservando e avrò anche io l'occasione di chiedergli questo e quello.

Parlo con una serena mestizia di Hemingway per cercare di portare il discorso su un versante che è personalissimo e che non so quanto (e neppure a chi) di questa tempi possa interessare. Ma è un rischio da correre.

Devo dunque raccontare un'altra cosa, e poi cercare in qualche modo  di portare tutto a unità.

Poco più di un mese fa ho avuto la bella opportunità, visto che ero a Potenza, di visitare un paio di paesi della mia Basilicata. In particolare Brienza (che è proprio bella) e Tramutola dove con massimo piacere ho rivisto Antonello Saiz, della libreria "Diari di bordo" di Parma, e dove oltre ad Annamaria Grieco ho conosciuto un nutrito gruppo di persone appassionate di libri e di lettura.

Galeotto è stato il libro e chi lo ha scritto. Voglio dire che quella sera a Tramutola Antonello Saiz ha voluto farmi l'onore grande di leggere con commovente passione pagine di L'odore della polvere da sparo, e tutte le altre persone presenti si sono impegnate al massimo per stimolare una discussione intorno a quelle pagine.

Ma per me, ancora una volta, è stata l'occasione d'oro per parlare di altre pagine.

Vi ricordate il libro VIII dell'Odissea, quello nel quale Demodoco canta dinanzi ai Feaci e al loro ospite straniero la storia di Odisseo e dell'inganno del cavallo e a udire quella storia che lui stesso ha chiesto fosse cantata, "Odisseo si struggeva, le lacrime gli bagnavano le guance sotto le palpebre"?

Ma non ci pensate mai? Odisseo, il polytropos, l'uomo dai molti percorsi e dal multiforme ingegno, l'eroe dalle mille astuzie e dalle innumerevoli risorse, colui che "di molti uomini vide le città" piange come una monaca che ascolti il racconto delle piaghe di nostro Signore.


E chissà quante volte vi sarete posti la domanda di come questo sia possibile. Guardate che una risposta c'è ed è affascinante. A volerla cercare - e ne vale la pena - è nello splendido libro di Adriana Cavarero Tu che mi guardi, tu che mi racconti.

Bene. Odisseo piange perché in quella storia riconosce sé stesso. E a me non sembra per niente cosa da poco perché alzi la mano chi non ha mai pensato (non detto, ché queste sono cose privatissime, ma pensato) leggendo un romanzo: questa è come se fosse la mia storia. Il che è come dire: questa è la mia storia.

E quanti, per fare un salto acrobatico in avanti, leggendo l'Antologia di Spoon River non sono rimasti commossi o interdetti nel cogliere in una di quelle vite raccontate dalla prospettiva dell'eternità la propria vita attuale?

Così, quella lunga  e piacevole serata di Tramutola è trascorsa a parlare di libri, soprattutto di altri libri. Come piace a me. E non solo perché ho incorniciato e tengo in bella vista quella imprescindibile ammissione di Jorge Luis Borges ("Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso delle pagine che ho letto"), ma perché mi pare di capire che oggi affidarsi alla grande letteratura sia una forma di Resistenza. Forse l'unica che abbiamo.

Vorrei non essere apocalittico. Vorrei. Ma intanto non trovo altra via da seguire, per sentirmi libero dalla connessione perenne, dall'oceano di sgrammaticate e confuse parole in libertà (segno di sgrammaticato e confuso pensiero), dall'insulso anteporre il proprio sapere, per quanto dilettantesco, a qualunque altro Sapere, se non quella di rifugiarmi nella letteratura che per me è vera e grande. Bestemmio se dico che ho bisogno di Omero, Virgilio, Dante, Cervantes, Montaigne, Shakespeare e Dickens e Dostoevskij e Kafka e Sciascia e Thomas Mann e Joyce e Proust e Simenon e Claudio Magris e George Steiner? Bestemmierò pure, di questi tempi, ma questo è il mio modo di resistere. E ovviamente, un grazie di cuore ad Antonello Saiz, ad Annamaria Grieco e a tutti quelli che in una tranquilla sera d'estate, in un piccolo paese della Lucania, mi hanno detto che sì, anche questo oggi significa resistere. 


Dimenticavo: nel frattempo mi è venuta in mente una lunga lista di domande per Hemingway.  Eh sì, ho proprio tante cose da chiedergli.



sabato 3 settembre 2016

Di librai-lettori. Di librai e lettori

Quando ero ancora un ragazzino, nella mia piccola città esistevano almeno un paio di librerie  grandi e fornitissime. Con scaffali che a me parevano enormi e che sicuramente contenevano migliaia di libri. Com'era giusto che fosse, avevano anche bellissime vetrine davanti alle quali io mi incantavo a guardare tutti quei libri e a pensare a quale potesse essere il modo migliore per poterli, un giorno, comprare tutti. E leggerli tutti.

Quasi sempre sporgevo lo sguardo un po' oltre e quasi sempre incrociavo la persona che tra quei volumi si aggirava toccandoli, sfogliandoli, cambiandoli di posto.

Provavo un sentimento misto di invidia, ammirazione, terrore. E mi dicevo che a fare i librai doveva essere davvero una bella fortuna. Avrei potuto chiedere al diretto interessato se davvero fosse così. Ma, come già detto, accanto all'invidia e all'ammirazione provavo anche un pizzico di terrore.

Vi immaginate, entrare in quell'universo e chiedere al suo creatore e custode notizie sulla sua felicità e fortuna? No, guardate, mi sono sempre fermato un passo al di qua. Anche perché ogni volta che entravo in  una di quelle librerie ero costretto a rendermi conto che quelle persone (i librai, voglio dire) erano uomini adulti immersi nel loro lavoro.

Ma una cosa non ho mai potuto evitare di dire a me stesso: beati loro che leggono tutti questi libri. Non me lo chiedevo. Era per me una verità e una condizione ovvia. Perché, nell'ottimismo della fanciullezza, pensavo di vivere in un Paese mediamente civile. Almeno mediamente. E in un Paese mediamente civile, i librai leggono i libri che hanno voglia di vendere.

Poi il tempo è passato. Non sono riuscito a trovare il sistema giusto per comprare tutti quei libri, ma in un modo o in un altro i libri li compro e li leggo. Non tutti quelli che compro, ovvio. Mi ci vorrebbe questa vita e l'altra che mi capiterà di vivere nella mia prossima reincarnazione. E ho sperimentato che purtroppo, nella generalità delle cose, non siamo un Paese mediamente civile.

Nella generalità delle cose. Ma la bellezza non sta nella generalità. Sta nelle cose piccole, forse nascoste. Nei desideri mossi dalla consapevolezza che in questi nostri giorni il compito che abbiamo è quello di resistere. A cosa? Vedete un po' voi.

E cosa c'entra tutto questo con il mio blog dove cerco ogni tanto di parlare di libri? C'entra eccome. Perché in questi giorni ho letto tre libri bellissimi (una trilogia, pensate, e io adoro le trilogie) di uno scrittore americano che si chiama Kent Haruf.

E questi libri li ho scoperti frequentando, per uno dei casi della vita, una libreria di Parma che si chiama Diari di bordo. Lì ci ho trovato Alice e Antonello che sono entrambi l'anima e il cuore, le mente e il braccio della libreria.

Ma dov'è la novità? Perbacco! La novità sta nel fatto che si entra in libreria e si chiede cosa si può leggere di bello. Anzi, veramente, si chiede: cosa posso leggere io di bello? Alice e Antonello, che confidano nei tempi lunghi necessari per conoscere le persone consigliano i libri adatti a ognuno. Libri che loro hanno letto e libri che a loro sono piaciuti. E, per quel che mi riguarda, sanno centrare il bersaglio.

Altra sottigliezza: non cercate di estorcere un consiglio sull'ultimo bestseller. Nisba. Niente da fare. Se resistere è la parola d'ordine...

Vorrei essere chiaro. Questo post è una sfegatata pubblicità alla libreria di Alice e di Antonello e al loro modo di essere librai-lettori. Cosa che io adoro.

E fatemi una cortesia: se capitate dalle parti di Parma (e se non avete occasione di capitarci allora andateci di proposito) passate ai Diari di bordo. Credetemi, è un'avventura dello spirito. Che poi ci trovate anche un sacco di persone-lettori da cui sarà difficile staccarvi.
E così anche voi proverete l'ebbrezza, necessaria, di essere "resistenti".

P.S.: come, non ho parlato della  Trilogia della pianura (Benedizione, Il canto della pianura, Crepuscolo) di Kent Haruf? Maddài, state dicendo sul serio?



domenica 24 maggio 2015

La terza? Non era prevista

Se qualcuno solo un  paio di mesi fa mi avesse detto che il mio lungo silenzio sarebbe stato interrotto con un post su Stephen King gli avrei risposto: "difficile!".
Difficile perché fino a quel momento ero il lettore di un solo romanzo di King, e anche per dovere diciamo morale più che professionale. La metà oscura era capitato tra le mie mani all'epoca in cui era uscito il film.
E così, poiché il film era di George A. Romero, ecco che l'ho letto, riletto e pure sottolineato. Ma che volete farci. Allora ero giovane e a certe cose ci tenevo. Più per me che per gli altri. Forse.
Vabbè, detto che il libro non mi era dispiaciuto, anzi, andiamo avanti.

Siamo arrivati a marzo 2015 e penso che è trascorso un anno tutto intero (sabbatico?) dalla mia ultima apparizione su questo blog.
Qualche senso di colpa, ma poi non tanti in verità. Perché tutto il tempo mi era servito per finire il mio, di romanzo, la cui copertina vedete in bella mostra nel blog.
Allora ho creduto che, concluso quello che dovevo concludere, fosse opportuno rituffarmi in qualche lettura abbandonata da tempo, e chissà perché (una frase carpita da qualche discussione altrui? un rigo letto di sfuggita qua e là?) riprendo il James Ellroy di American Tabloid.

C'entra di sicuro l'interesse per il romanzo e per la Storia e poi, chissà, anche per i primi anni Sessanta e per l'evento che forse più di tutti li ha destabilizzati. Leggo pagine e pagine, e penso che sull'argomento non mi sono lasciato sfuggire, anni fa e ancora nella edizione Pironti, Libra di Don DeLillo.
Ma leggere un libro mentre con il pensiero si va a un altro rende le cose difficili. E io che a volte non mi accontento delle  difficoltà semplici (non si semplifica ciò che è complicato, je crois) e che dunque vado oltre, leggo American Tabloid mentre penso a Libra mentre mi chiedo se da qualche parte possa esserci un altro romanzo che racconti l'affaire Kennedy. Diventa tutto abbastanza complicato o c'è qualche altra cosa da fare?

Comunque scopro che un altro romanzo c'è. Anzi, a dire il vero, "ricordo" che un altro romanzo c'è. Ma purtroppo, mi dico, è di Stephen King. E a me l'horror piace al cinema e non tra le pagine. Confesso.
Poi, mi dico, che tra tanti spiccioli lasciati inutilmente in questa o quella libreria cosa mi cambia se vado a lasciarne altri per prendere e portare a casa 22/11/'63? E cosa volete che cambi. Visto che è in edizione economica basta pensare di aver invitato un paio di amici a prendere un aperitivo da qualche parte. Già, basta pensare.

E dunque eccoci qui con il tomo tra le mani. La prima pagina va via in un tempo da primatista mondiale.
Ma com'è che non sento nessun prurito o tensione nelle mani che prelude al desiderio di abbandonarlo, questo libro? Mah. La seconda e la terza pagina confermano i tempi di lettura da record della prima. E qui, perdonatemi, ci vuole una pausa caffè. Lascio il libro sulla scrivania e vado in cucina. La preparazione è accurata. Acqua fino a dove si deve, polvere di caffè senza pressione esagerata eccetera. Ma alla quarta pagina e alla quinta, massimo alla sesta (penso mentre metto la macchinetta sul fuoco) arriverà l'intoppo e lo abbandonerò al suo destino questo libro sui viaggi nel tempo.

Intanto ci vogliono ancora diversi minuti perché il caffè sia pronto, e allora lo lascio incustodito e me ne vado a leggere la famigerata pagina quattro e la cinque e la sei. Non succede niente di quello che m'aspettavo e forse desideravo, e quando comincio a sentire un vago odore di bruciato mi rifiondo in cucina. Il caffè, o quello che resta del caffè, è da buttare. Vabbè, del resto non ne avevo neppure voglia.

Cosa succede nelle ore successive? Succede che arrivato a pagina duecento non vedo l'ora di finirlo, questo benedetto romanzo. Per cominciare a rileggerlo. Sintetizzo perché sono andato già oltre: il fine settimana lo passo incollato alla sedia, svaccato sul divano, raggomitolato sulla poltrona.

Cosa avrei dato per essere io il primo a leggere il tema di Harry Dunning! E per essere seduto a quel tavolo a mangiare gli hamburger da due soldi di Al e sentirlo raccontare della sua malattia e del perché quegli hamburger nel suo locale costano da sempre pochi spiccioli. Come avrei risposto alla sua domanda "lo sai che cos'è un 'momento spartiacque', compare?". Mi sarei messo a ridere? A piangere? No, a piangere no, non sono mai stato un uomo facile alle lacrime.

E poi, sentite, quando mi avrebbe detto che avrei potuto cambiare la storia e che John Kennedy poteva salvarsi...

Bene. Ora 22/11'63 è qui ancora sulla scrivania e appena finito di leggere Duma Key mi ci rituffo dentro, e questa volta con il mezzo dollaro che devo ricordarmi di dare a... Ma no, non vi tolgo la sorpresa.
E intanto in dieci giorni sono passato Da Shining a Misery a Dolores Claiborne alla Storia di Lisey a Duma Key e alle mie spalle c'è uno scaffale che nel frattempo si è riempito di mooolto King (ma vorrei dire di Stephen, ché nel frattempo siamo diventati amici). E dannazione, mi devo procurare a ogni costo Cuori in Atlantide.

Ah, ma prima di andare via devo dirvi altre due cose.
La prima: ma sarà poi vero che dietro ogni insegnante di letteratura c'è uno scrittore frustrato? Io ho paura a rispondere. E voi che dite?
E la seconda?
Ah, la seconda. 22/11/'63 è un capolavoro. E Stephen King, mi pare di capire, quando vuole riesce a essere un grande scrittore. Ma questa è già la terza. E non era prevista.

martedì 18 marzo 2014

E che caso!

Antonio Canova, Amore e Psiche
E sì che molte cose ce le siamo dette, e che ci conosciamo tanto quasi come se fossimo ormai di famiglia. Che la nostra vita appassionata di lettori compulsivi e ossessivi e onnivori sia spesso decisa dall'incontro causale con questo o quel libro è un segreto di Pulcinella che ci siamo rivelato tante e tante volte.
Ma non è qui il vero piacere del nostro rapporto con scrittori e scrittrici, con libri e storie, con romanzi e saggi e biografie et et et...? Un rapporto che oserei definire, sintìti sintìti, sensuale e fisico come pochi altri e mo' lo dico e lo dico: persino erotico.

Massì, confessiamocelo che atteggiarsi a Casanova in un universo di libri ci rende felici. E ci inorgoglisce persino un po' se un giorno o un altro dalle pagine di qualche libro che abbiamo appena sfogliato e poi messo da parte e ripreso e poi riabbandonato sentiamo venir fuori una vocina indignata che, tra il lustro e il brusco, ci lancia addosso l'agnognato rimprovero: Dongiovanni, sei solo un dongiovanni.

Dongiovanni, per la miseria! Niente morale, perdinci e perbacco (ve lo ricordate perbacco baccone?). Niente falsi sensi di colpa. Una ne lascio e una ne prendo. Una ne finisco e una ne comincio. Per una che se ne va, ce ne sono mille che arrivano. Ogni lasciata è persa? No, che la riprendo quando voglio.
Di storie da leggere, dico.

E vabbè, finita questa sfuriata senza capo né coda: che c'entra di nuovo il caso? C'entra, c'entra. E siccome stasera sono un po' così, ora ve li racconto, i casi miei. Così poi, dopo, voi mi dite i casi vostri. E, visto che siamo quasi in famiglia, ognuno si fa i casi degli altri, invece di farsi  i casi suoi e basta. Che ognuno ce n'ha.

Immaginate dunque il traffico della Boccea alle sette e un quarto di mattina. I romani sanno cosa voglio dire. Tutti quanti gli altri di sicuro lo immaginano. In macchina (prenderei volentieri l'autobus ma gli orari sono ballerini, i tempi di percorrenza incogniti, gli spazi fruibili sui mezzi una pura astrazione) per rimanere più concentrato sulla guida ascolto il notiziario che è sempre quello che è. E così così che una bella mattina, ma di quelle belle, ci capita di sentire la simpatica voce francese (ah, j'adore!) di Pierre Lemaitre che alla incauta domanda dell'intervistatrice su cosa si aspetta ancora dopo i successi recenti del suo Ci rivediamo lassù risponde serafico e sornione: di conquistare i lettori italiani.

Bene, dico. Il ragazzo merita. Bella risposta. Bel tono. E poi. Il suo romanzo è ambientato negli anni della Grande guerra. Due amici. Storie così. Al terzo semaforo rosso già sto smaniando e sono nel bel mezzo di una tempesta ormonale (alla mia età?): devo prenderla, possederla al più presto. Quasi quasi lascio la macchina qui e scappo nella prima libreria e do sfogo alla mia turpe voglia. Già fantastico. La afferro, la accarezzo, la annuso, la porto a casa. E poi e poi. La mia copia di Ci rivediamo lassù (ahhh, volevo dire...) avrà il suo posto nel mio harem.

Pallareta
Aspettative non tradite. Un romanzo molto bello. Divorato. Quattro giorni insieme, come quella canzone di Checco Loy e Massimo Altomare che ascoltavo fino a farmi venire le bolle sui timpani qualche vita fa, durante un mitico campeggio alla Pallareta. Proprio - che emozione! - in quella struttura che vedete qui a destra (ma la strada allora non c'era).

Passa forse una settimana, e com'è e come non è e chissà se è normale, in via della Conciliazione combatto contro un altro improvviso assalto ormonale. Passo per caso vicino alla vetrina di una importante libreria e ve lo dico proprio: un lampo, un luccichio, un riverbero rosso. E io quando vedo rosso... E vuoi vedere che è proprio il Gesù di Jean-Christian Petitfils, che corteggio già da qualche mese? C'è solo un modo per averne conferma. Andatura ciondolante, Donegal calato un po' sulle ventitre, mani in tasca, occhio strizzato da miope incontinente (?) e spalle un po' in fuori. E chi potrà mai resistermi se ora entro?

Via. Che anche questa è fatta. Seicento pagine e dico seicento. Tutte affascinanti. Tanto che meritano una doppietta. Alla prima sottolineatura di matita bisognerà aggiungere quella dell'evidenziatore giallo.

Pochi giorni dopo, ma veramente pochi. Preso da incontenibile eccitazione (un mio conoscente, grande accademico e collezionista di dizionari, direbbe foia) ritorno in quella libreria. Niente luccichii né riverberi. Solo idee chiare. Questo e questo e quest'altro. Macché, brancico casualmente sugli scaffali e riprendo la via di casa con il primo volume di Un ebreo marginale di John P. Meier (che, apprendo dal risvolto, è probabilmente il più eminente studioso biblico della sua generazione. Mica pizza e fichi) e, questa sì che è bella ma proprio bella, con una copia del Quo vadis? di Henryk Sienkiewicz.



Romanzo che, ascoltatemi bene, durante la fanciullezza e l'adolescenza ho accuratamente (e quando dico accuratamente so bene quello che dico) evitato. E con un eroismo di cui non mi credevo capace perché - forse lo ricordate anche voi - non c'è stata suorina del catechismo o sussiegosa sacrestana amica di un'amica per caso (ah, il caso!) amica di famiglia che non abbia tentato nelle feste comandate (e, come da precetto, almeno una volta a Pasqua) di consigliarme/ve/cene la lettura. E, in premuroso soccorso alle già decisive truppe parrocchiali, tutte le bibliotechine scolastiche tutte ne facevano bella ma bella mostra.


Macché. Io ho resistito imperterrito, con questo romanzo che aleggiava sotto il mio naso passando da una amichetta all'altra; dalla ragazzina bionda con il caschetto modello Carrà a quella con un cespuglio di riccioli castani. Ahimé. È stata dura. Non so voi, ma io ho resistito. E, giustamente, quel caschetto e quei riccioli hanno preso altre vie.
Eh, se avessi saputo... Il Quo vadis? lo avrei non solo letto, ma lo avrei imparato a memoria. Mea culpa. Mea maxima culpa. 

Jack London
Poi le cose vanno come non ci si aspetta che vadano. Arriva un tempo e arriva un'età in cui si capitola. E di capitoli, mi pare, noi qui di famiglia ce ne intendiamo mica poco. Anche se, vi confesso, che capitolare tra questi capitoli di Sienkiewicz  non è fin qui (e siamo a metà delle quattrocentocinquanta pagine) cosa che mi stia spiacendo troppo. Anzi.

Però ne riparliamo, ne riparliamo. Perché, ora che mi ricordo, c'avrei sul caso un'altra cosa da raccontare. Un cosa che, dopo una quarantena durata anni e anni e anni, mi ha condotto - nientemeno - tra le pieghe e tra le pagine del mio adorato Jack London.

sabato 8 febbraio 2014

La passione, perbacco.

Non ci pensavo proprio a riparlare del pregiudizio. Un post mi sembrava più che sufficiente e poi, che dire, non è mica semplice stare sempre a rimestare nei propri difetti. Già, perché confessare di nutrire dei pregiudizi significa anche dover scoprire e rivelare la propria supponenza. E io, che volete, di farvi capire quanto sia supponente non ne ho punto voglia. Almeno non stasera.
Ovviamente, sia chiaro, parlo di cose che hanno a che fare con i libri. Che in generale non significa parlare dell'universo mondo ma, per quello che mi riguarda, poco ci manca.
Meglio allora pensare a dire quattro cose quattro sui libri letti di recente.


Ma il fatto è che i libri si accumulano e per mia fortuna le letture si susseguono a ritmo molto sostenuto (vorrei scrivere "febbrile", ma l'espressione fa ridere me per primo); e allora il libro più recente diventa quello che ho appena letto ieri o che sto leggendo oggi, e che leggerò domani e domani l'altro e così via.

E dunque? Di che libro parlare?
Ormai non lo so più. Potrei fare però una lista e ci sarebbero Augustus. Il romanzo dell'imperatore e Stoner, tutti e due di John Williams. A proposito di Stoner. Ah, che grande libro e che grande seconda di copertina. La leggo per la prima volta pigramente addossato allo scaffale di una libreria del centro. William Stoner ha una vita che sembra essere assai piatta e desolata eccetera eccetera e non sembra materia troppo promettente per un romanzo eccetera eccetera John Williams fa della vita di Stoner una storia appassionante, profonda e straziante eccetera eccetera.
E caspita, tre aggettivi tre che per me hanno un effetto pavloviano e mi viene l'acquolina in bocca. Lo prenderò, oh sì, questo libro sarà mio. Però, quella vita assai piatta e desolata. E se anche il libro è così? Meglio aspettare.

E passa ottobre, e passa novembre. E poi, come al solito, arriva dicembre e, tanto per citare (ma mica tanto), mi addormento come in un letargo. Altri libri intanto si sono sommati e altri post hanno cercato, ovviamente invano, di vedere la luce.
Poi, una sera, ancora in una libreria del centro. Giro e prendo. Limonov di Emmanuel Carrère (bella biografia, ma come scrittore Limonov è scadente, checché ne dica o ne lasci intendere Carrére. Diario di un fallito è esageratamente sopravvalutato), e poi Il sole dell'avvenire di Valerio Evangelisti (ah, il romanzo storico come piace a me), e tre o quattro volumi della collana (collana? si può dire?) Il romanzo di Roma e qualche altro romanzo di cui, fra qualche riga capirete perché, taccio il titolo.

Dunque è il momento fatale di avvicinarsi alla cassa. Il momento nel quale, più che in altri, si fanno i conti con i propri sensi di colpa. Saranno sui cento euro. Mannò mannò (per i puristi: ma no, ma no) che non si può più andare avanti così. La settimana scorsa stessa storia. Così non si può proprio continuare. E che diamine. Un limite ci deve pur essere.

Il peso dei pensieri e quello dei libri non mi impedisce però di fermarmi ancora e per l'ennesima volta nel corso di questo (ormai alle spalle) autunno davanti alla copertina di Stoner. Eccolo lì. E che si fa ora? Niente. Perché, fortunatamente per l'economia familiare, ho le mani occupate.

"È bellissimo. Glielo consiglio proprio. Un romanzo bellissimo".
Alzo gli occhi.
Una donna bellissima almeno come il romanzo di Williams (che a questo punto, lo so, prenderò senza indugio e scrupolo) accompagna la sua voce suadente con un sorriso dolce.
"Ah, sì. Lo so. È da qualche mese che ci giro intorno...", cerco di rispondere tra il sorpreso e l'imbranato.
"Lo legga. Glielo consiglio..."
"Ma lascia stare il signore. Non stare lì a importunarlo. Che ne sai se è interessato a quel libro?".
La voce questa volta è, purtroppo, maschile.
"Ma sono sicura che gli piacerà. Ne sono sicura".
Allora dico grazie. Ricambio il saluto e per qualche secondo me ne sto a guardare lui e lei mentre se ne vanno, tra gli spazi della libreria, incontro alla loro storia. E chissà che tipo di storia sia.

Poi abbandono quei tre o quattro volumi di cui vi dicevo prima e di cui è cosa giusta  e pia tacere il titolo (bisogna avere pudore nel nominare i libri che - anche se momentaneamente - si abbandonano al loro destino), e prendo il mio Stoner.
Vorrei dire adesso a quella bella e premurosa donna che aveva ragione. Mi è piaciuto proprio, ma proprio proprio. E all'estensore della seconda di copertina che, per la miseria, ma c'è la vita, la vita, dico, nelle pagine di questo romanzo. Altro che. La vita in tutte le sue pieghe (ma si può dire?). E la passione. La passione, perbacco. A quell'uomo preoccupato di non farmi importunare invece non dico niente. Ecco.

Ma parlavo, all'inizio, del pregiudizio...
Ho però già esaurito spazio e tempo e quindi vi lascio in pace. Comunque, se vi interessa, il pregiudizio  ha avuto come bersaglio per tutti questi lunghissimi anni (parentesi universitaria compresa e, aggiungo: ahimè, che così non doveva essere) il libro e lo scrittore che vedete in apertura e in chiusura di questo post.

Ma chi, Curzio Malaparte? Già, Curzio Malaparte. Un grande scrittore, credetemi. Grandissimo.
E pensare che...